martedì 21 ottobre 2014

...e se i tuoi occhi fossero i miei?

Il lavoro di medico è un lavoro particolare, sicuramente delicato e pieno di grandi responsabilità, forse, per certi versi, la "mitizzazione" della medicina è ingiustificata, esistono lavori più stressanti, faticosi, nei quali alla fatica fisica o psicologica non si accompagna un adeguato compenso economico (non è che i medici in generale guadagnino così tanto, ma c'è chi sta peggio), non si tratta quindi di un lavoro "eroico", è un mestiere come un altro, ma ha una caratteristica che forse non ha nessun'altra professione: il contatto con le persone sofferenti, con il dolore e con momenti intimi e che quasi nessuno condivide con gli altri. Tutte le professioni sanitarie hanno questa caratteristica, dall'infermiere, all'ostetrica, l'operatore socio-sanitario, si lavora spesso con chi sta male, con chi ha una fragilità o un dolore. Ma il medico è quasi sempre quello che deve decidere, agire, comunicare.
Forse è per questo e per mantenere una corazza fatta di sicurezze e certezze molto fragili che si scontrano con l'essere degli umani assolutamente normali, che difficilmente un medico racconta le sue debolezze, le indecisioni, i dubbi e gli errori, il paziente vuole mettersi nelle mani di qualcuno capace dell'impossibile non di un uomo capace inevitabilmente solo del possibile.
Esistono dei momenti, durante la vita del medico, difficili e particolarmente impegnativi, ma uno, forse il più impegnativo (almeno secondo me) è quello che si prova quando hai davanti un altro essere umano che sai non avere più speranze. Davanti al dolore fisico c'è sempre la possibilità di provare a dare sollievo, persino di fronte ad una diagnosi molto grave puoi sempre sperare che le cure facciano effetto, ma quanto tutto è stato fatto, quando ogni tentativo è fallito, il medico sa che chi ha di fronte non ha un futuro.
È dura ed è molto difficile capire quale sia il comportamento più adatto.
Voglio raccontarvi una di queste storie per provare a far capire come possa essere difficile il contatto con una vita comune che però non ha speranza di continuare, come siano complicati e delicati comportamenti ordinari, come parlare, rispondere, guardare.
Una donna si presenta al pronto soccorso per dei disturbi molto vaghi, non li elenco ma si trattava di sintomi abbastanza lievi. La sottopongo a degli esami tra i quali un'ecografia ed è questa che mi porta al sospetto di un problema molto grave, un tumore, probabilmente di quelli che non lasciano molte speranze. Per avere conferma di quanto avevo visto chiamo anche un collega che ha lo stesso sospetto.
Alla paziente non diciamo tutto, spieghiamo naturalmente ciò che si vedeva, cosa poteva essere, ma provammo a non comunicare il nostro pessimismo, fondamentalmente inutile e non importante in quel momento.
Le diciamo che sarebbe stato necessario un approfondimento e così fu, gli ulteriori esami confermarono purtroppo i sospetti, si trattava di un tumore maligno di quelli più gravi.
La paziente fu sottoposta ad intervento chirurgico ed anche ciò che vedemmo con i nostri occhi non fu per niente bello, la malattia era disseminata, difficilmente estirpabile.
Dovete sapere che parlare di cancro, anche per un medico, anche per la medicina, è un tabù: una parola che terrorizza, spaventa, lascia senza fiato. Così anche tra noi che ne vediamo tanti, raramente si sentirà pronunciare quel termine. Cancro così diventa "K", si trasforma in una lettera, impersonale, neutra, che non ha nessun connotato negativo, qualcuno scrive "Ca", un tumore maligno, chiamato Ca (pronunciato "ci-a"), fa meno paura, anche a noi medici. Altri ancora assegnano un nome latino, una lingua nobile, usata forse per dare eleganza e poca cattiveria ad una parola che terrorizza: "mali moris", il "male dei mali".
Questa paura nel pronunciare quel nome scompare nei referti, che non possono mentire o nascondere ed il referto della paziente era chiaro, un tumore maligno, un cancro.
Fondamentalmente la paziente segue l'iter di tutte le donne con quel problema, si ricovera ed è sottoposta ad intervento, era una paziente tra tante, una donna elegante, giovane, simpatica, molto curata, ma non era diversa da altre, da tante donne, mamme, mogli, che avevano avuto la stessa diagnosi, è frequente entrare in confidenza con chi hai in reparto ma i pochi giorni di degenza e gli impegni non permettono di approfondire la conoscenza o di entrare più a contatto.
Fino a quando un pomeriggio viene in reparto una bambina, era la figlia della signora, circa 11-12 anni, quando vede la mamma piena di tubi, flebo, cerotti e cateteri è evidente la sua sorpresa. Ero abbastanza vicino per sentire ciò che si dicevano e la figlia chiese alla madre cosa avesse, mi colpirono le sue mani, intrecciate in uno spasmo di paura che le legava una all'altra deformandole, unite con forza, in un gesto che mostrava tutto il terrore e lo sbalordimento di quella piccola donna. La mamma, per non allarmare la bambina naturalmente fu evasiva: "la mamma sta male, qualche giorno di ricovero e poi torna a casa".
Successe proprio questo, arrivato il momento della dimissione fui io a doverle spiegare cosa sarebbe successo, l'intervento era andato bene così come la convalescenza, le spiegai che sarebbe stata sottoposta ad altre terapie, alla chemio, forse altri esami e che comunque ci saremmo visti per i controlli.
Mi fece una domanda precisa: "dottore, ma è grave? Quante speranze ho di farcela?". Un medico non può mentire, ma anche la verità può essere detta in tanti modi, senza bugie ma ricordandosi di avere di fronte una persona come te, io sapevo che quella donna aveva poche speranze, lo sapevo e dovevo comunicarglielo. Le dissi che la malattia era grave ma che, visto l'intervento e le successive terapie, le speranze c'erano, ci saremmo visti ed anche la voglia di combattere e l'ottimismo potevano essere delle ottime armi. Non dissi una bugia ma forse neanche tutta la verità.

Rividi la paziente dopo circa 3 mesi, stava benissimo, era tornata ad una vita praticamente normale, ben vestita, una bella espressione, vivace, era tanto in forma che stentai a riconoscerla e quando mi salutò dovetti riflettere un po' prima di ricordarmi di lei.
"Signora, ma lei è in formissima!", mi rispose che stava benino e che quando le capitava di essere un po' giù o pessimista pensava ai miei occhi ed alle mie parole e tornava subito ottimista.
Ne fui contento ma sentìi anche molta responsabilità, una parola sbagliata, una frase buttata lì, un pensiero espresso con poca attenzione, anche queste cose fanno parte della cura, anche questa è (dovrebbe essere) medicina, per lei, pensare alle mie parole ed al mio sguardo era diventato un appiglio, un incoraggiamento ed un motivo per sperare. È tanto bello quanto duro da sapere.

Persi di nuovo di vista la paziente per rivederla solo due anni dopo.
Stavolta non rividi la donna di prima, quella elegante, truccata e ben vestita, vidi una donna distrutta, trascurata, chiaramente scoraggiata. Le chiesi come andasse e mi rispose che l'ultimo controllo aveva evidenziato un ritorno della malattia e rimasi di sasso. La guardai fissa e lessi nei suoi occhi una domanda, una richiesta, in quegli occhi c'era la sua vita e cercava risposte da me, si aggrappava totalmente alle mie parole, di nuovo e provai ad incoraggiarla ancora..."vedrà signora, ce l'abbiamo fatta per due anni, ce la faremo ancora...", lei mi rispose "io non voglio vivere per due anni, voglio vivere fino a 60 anni, ho una figlia, una famiglia..." e rimasi senza parole, mentre lei aveva ancora quello sguardo pieno di domande e paura, ci guardammo per qualche minuto e riuscìi ad abbracciarla ma non ebbi la forza di dirle altro, abbassò i suoi occhi e silenziosamente si allontanò, chiamata dall'infermiera che doveva farle un prelievo.


Davanti a quello sguardo, dopo un iniziale imbarazzo, provai per qualche secondo un'indecisione, la mia mente voleva capire se dovevo comportarmi da professionista tecnicamente e freddamente ineccepibile o se fosse giusto aggiungere quello che c'è oltre il professionista, l'uomo sotto il camice bianco. Ho pensato "e se i tuoi occhi fossero i miei?".
Se un giorno avrò anche io quello sguardo da un letto di sofferenza e trovassi un mio simile al quale mi sono affidato, cosa mi aspetterei, quale sarebbe il mio desiderio?
Quegli occhi avrebbero potuto essere i miei, probabilmente lo saranno, in un letto al posto di quel paziente e di fronte a me ci sarà un altro medico al posto mio, probabilmente farei quello stesso sguardo, fisso, interrogante e speranzoso. È una sensazione strana, profonda ed hai due possibilità per risolverla: annullarla o accontentarla.
Nessuna delle due possibilità è la migliore (o almeno io non so quale sia), nessuna delle due è semplice da scegliere. Ma mi chiedo cosa vorrei io al posto del paziente, se preferirei che quel medico annullasse la sua persona per svolgere freddamente il suo compito o se preferirei che assieme al suo compito riuscisse a dirmi qualcosa, ad essere un compagno di avventura.
Non è facile, lo capisco, ma andare via avvolti dalle parole di un altro essere umano che ti accompagna nella malattia può servire a sentire il calore che manca in quei momenti.

Ebbi nuove notizie della signora circa un anno dopo, mi dissero che era ricoverata nel reparto di medicina interna, due piani sopra quello in cui lavoravo io. Aspettai di finire il turno per togliermi il camice ed andarla a salutare, in borghese, come fossi un conoscente, senza dirlo a nessuno, non andavo come medico ma come uomo.
Arrivato davanti alla sua stanza c'erano un po' di persone in attesa. Assieme alla sorella della signora altri miei colleghi, tutti in borghese. Nessuno aveva rapporti di parentela o amicizia con la signora, eravamo tutti lì, chissà perché, per un saluto, uno sguardo, eravamo lì per lei, una paziente come le altre, tanto che non ci rivolgemmo parola, come se non ci conoscessimo. Uno ad uno entrammo nella stanza. Io salutai la signora che, ormai grave, mi riconobbe e mi fece un sorriso, le dissi qualcosa, la accarezzai e la guardai negli occhi, ricordando quanto furono importanti per lei i miei occhi, le sorrisi e lasciai il posto ad un collega, uscendo pensai a sua figlia, la bambina che con le mani intrecciate dalla paura le chiedeva cosa avesse.
Ero in reparto e leggevo la posta quando mi arrivò la notizia che la signora non ce l'aveva fatta.
La pensai e, come si vede, la penso ancora oggi e di anni ne sono passati.
Non cambierà nulla della sua storia, forse non ho aggiunto nulla alla sua vita, ma il fatto che il suo ricordo è ancora qui con me è un piccolo segno che anche chi muore resta con noi.
Oltre a questo ho la convinzione che dove non arriva la medicina o dove si ferma la vita, a volte, le parole, l'uomo, un abbraccio, sono quello che chiunque in quei momenti vorrebbe avere.

Forse, se riuscissimo a vedere i nostri occhi negli occhi degli altri, di tutti gli altri, potremmo dire di vivere veramente e di vivere oltre la vita.

Alla prossima.

lunedì 13 ottobre 2014

La dittatura scientifica: ovvero perché la scienza non si decide democraticamente

Immaginiamo una scena.
Andiamo dal medico e, dopo essere stati ricevuti, elenchiamo i nostri sintomi: il malessere, quel dolore proprio sotto lo sterno e la difficoltà a digerire. Il medico ci guarda, riflette e poi telefona a qualcuno. Nel frattempo entra in ambulatorio un altro signore in camice, che si siede vicino al dottore, anche lui fa una telefonata. 

Bene, dopo un sospiro, il nostro medico ci fornisce il suo responso: “Guardi, dai sintomi che elenca a me sembra lei abbia una gastrite, ovvero un’infiammazione della mucosa gastrica con possibile causa batterica, quindi dobbiamo fare un primo esame diagnostico e da quello decidere la terapia…ma…ho interpellato il mio amico pranoterapeuta che sottolinea come vi sia un evidente squilibrio energetico che richiede un adeguato trattamento del Qi, quindi consiglia 10 sedute da lui".
Il medico è interrotto dall’altra persona che nel frattempo aveva terminato la telefonata. “Scusate se intervengo” -dice- “in qualità di iridologo omeopata, il bruciore sotto lo sterno può essere curato solo con il peperoncino estremamente diluito ma preferirei della belladonna 200CH, sono pronto a prescriverla, anche se prima mi sono consultato con un collega che consiglia di controllare il "plesso solare" che potrebbe essere chiuso e dovrà essere quindi riaperto con delle sedute di Reiki”.

Ecco, dopo una scena del genere chi non sarebbe disorientato e confuso?
Abbiamo assistito ad un confronto democratico tra varie visioni della salute e della medicina, ognuno ha dato il suo responso, alla pari, la sua opinione personale. Una, scientifica, che si basa su ipotesi convincenti, test che le confermano e linee guida condivise in tutto il mondo, che ha mostrato di ottenere risultati convincenti, ripetibili e dimostrabili, le altre non scientifiche che si basano su ipotesi non dimostrate o non del tutto dimostrate e decisioni arbitrarie, con l'aggiunta che i risultati, quando va bene, non sono convincenti e quasi sempre non esistono. Per questo esistono le pubblicazioni scientifiche, illustrano i risultati di un esperimento, chiunque può leggerle, controllarle, confutarle, smentirle se possibile. Le "opinioni" senza controllo scientifico (o che non lo hanno superato) restano opinioni, indimostrate, non sono scienza né medicina.

Usciamo dallo studio medico senza una diagnosi e senza nemmeno una cura, perché nel frattempo mentre il medico stava prescrivendo un test per Helicobacter pylori con un antiacido per darci sollievo temporaneo, l’omeopata prescriveva 9 granuli al giorno di belladonna per 6 mesi, il pranoterapeuta una serie di sedute di prana, il maestro Reiki due trattamenti al giorno fino a completa riapertura del plesso solare.

Siamo sconfortati e delusi. A chi dobbiamo dare ascolto? Possibile che tutti avevano idee diverse? Chi ha ragione? Non si sa con sicurezza, ma possiamo dire che la possibilità che abbia ragione il medico è molto alta e sicuramente molto più alta di quella degli altri. Gli altri “terapeuti”, potrebbero averla, ma finora non sono riusciti a dimostrarlo e chi ha controllato se avessero ragione ha tratto una conclusione precisa: non ne hanno. Ascoltarli quindi è come puntare su un cavallo perdente, che ha pochissima possibilità di vincere.

I "non scienziati" non fanno scienza ma pseudoscienza, si basano su presupposti mai dimostrati e mai hanno dimostrato il contrario, c’è poco da fare dunque, si è liberi di avere le proprie opinioni, ma non tutte hanno lo stesso valore. Per questo si dice che la scienza non è democratica. Una cura efficace non si decide per votazione o per alzata di mano e nemmeno se chi la propone è un ottimo comunicatore o un abile venditore, non cura chi è più simpatico ma chi è più bravo a farlo e può dimostrarlo, l’opinione di chi si basa su osservazioni personali non è equivalente a quella di chi si basa su osservazioni ripetute e controllate anche da altri.
La medicina scientifica infatti, non è necessariamente quella "giusta", non è detto abbia per forza ragione ma è quella che ha dimostrato, oggi, con le nostre conoscenze e con i nostri mezzi, di funzionare più di altre, è molto più avanzata rispetto a quella dei nostri avi, sarà molto arretrata rispetto a quella dei nostri discendenti.
Tutte le altre pratiche, quelle non scientifiche, non necessariamente devono avere torto su tutto, non per forza non funzionano mai, ma negli esperimenti, con i nostri mezzi e le nostre conoscenze, hanno dimostrato di non funzionare.
Non c'è democrazia che tenga quindi: la medicina scientifica funziona, tutte le altre no.
Chi diffonde pseudoscienze però, cerca di "mettersi alla pari", non gradisce il suo essere considerato alla stregua dei cartomanti e così attua una serie di comportamenti che possano farlo sembrare "attendibile" quando non vi è attendibilità.

Chi dice di essere l’unico a conoscere una cura, non ha la stessa dignità scientifica di chi applica una cura provata e riprodotta da migliaia di persone nel mondo, sembra un concetto banale e scontato ma non è così. Se dobbiamo discutere delle caratteristiche di un nuovo pianeta extrasolare non chiameremo a dibattere un astronomo ed un astrologo, semplicemente perché il primo studia la scienza dell’universo basandosi su leggi e conoscenze acquisite ed accettate ed illustra le sue conoscenze con un linguaggio internazionale, quello della scienza, il secondo si basa su superstizioni, teorie non dimostrate, prove inesistenti e le sue conoscenze non hanno nessun linguaggio condiviso, ha un'idea che nessuno ha mai dimostrato vera, lo stesso vale per capire le caratteristiche di una vena acquifera: consultare un geologo ed un rabdomante è semplicemente ridicolo, sbagliato: il geologo applica ciò che migliaia di studiosi hanno provato e lui ha approfondito, il rabdomante vende il suo prodotto che non ha alcuna attendibilità. Se parliamo della sfericità della Terra, non dobbiamo dibattere con chi sostiene sia piatta, nessuno di noi (chi non fa l’astronauta almeno) ha mai visto la Terra dallo spazio, ma ci fidiamo di chi ha fatto quei calcoli, di chi l’ha vista e studiata, “l’alternativo” che sostiene la Terra sia piatta lo dimostri o taccia.

Così in medicina: non solo in quella che “si fa” ma anche in quella che “si discute”, d’altronde, se cercate la ricetta della pasta alla carbonara, ascoltate le spiegazioni del cuoco e quelle del benzinaio decidendo chi ha ragione dal modo di parlare o preferite seguire le indicazioni del primo che, anche se non sa esprimersi bene, ha sicuramente più competenze ed esperienza del secondo? Il benzinaio può essere bravissimo a cucinare, ma non è il suo mestiere, non ha voce in capitolo, non è attendibile, se poi qualcuno vuole ascoltarlo, fatti suoi. Chi basa le sue opinioni su concetti non dimostrati ha sempre la possibilità di provarli e di avere ragione ma se non lo fa e la ragione la pretende lo stesso, molto probabilmente è un imbroglione, come lo è chi non segue le regole della scienza, che esistono anche in medicina proprio per evitare che finiscano per curarci stregoni e maghi da quattro soldi. Questo in genere non è un problema negli ambienti dove si curano le persone (negli ospedali per esempio, è davvero difficile si siedano accanto il medico e lo stregone) ma in altri ambiti (in televisione o nei media in generale ad esempio) può succedere che le tesi di un sedicente esperto vengano messe a confronto con quelle di un vero esperto, di un professionista del settore e di esempi ne abbiamo tanti. I sismologi che devono discutere le tesi di un tecnico che prevede (a posteriori) i terremoti, i ricercatori che devono spiegare perché un esperto di marketing non può aver scoperto la cura per tutte le malattie e così via.
Per questo è onesto, corretto e costruttivo mettere le cose in chiaro, si informa bene, se si chiarisce con chi si sta discutendo. In caso contrario si pongono sullo stesso piano due persone che non lo sono, confrontare un esperto che deve spiegare concetti complicati o semplificare termini tecnici con uno che liquida un argomento delicato con due parole che, a prescindere dalla loro correttezza, arrivano subito al pubblico, è una furberia, una scorciatoia pericolosa ed uno scienziato che si rispetti commetterebbe una grossa ingenuità confrontandosi con uno pseudoscienziato, ne uscirebbe sfinito e disarmato dalle sparate inconsistenti (e spesso inconfutabili perché basate su mere ipotesi) di chi ha di fronte.


La televisione inglese (la BBC) ha "risolto" questo problema stilando delle linee guida riguardanti i programmi di informazione scientifica. I giornalisti non devono invitare pseudoscienziati o presunti esperti nei loro programmi. Se si parla di medicina devono parlare i medici, se di fisica i fisici e così via. D’altronde, chi si farebbe riparare la macchina da un medico e si farebbe operare per appendicite da un meccanico?
Le scelte della scienza e le sue conclusioni e, se continuiamo a parlare di medicina, le terapie, non sono per forza (e forse non lo sono quasi mai) ciò che "la maggioranza" desidera. Chi non desidererebbe che una grave malattia si curasse con una semplice dieta? Tutti. Eppure non è così.
Altrimenti potremmo indire delle votazioni, le scienziarie, nelle quali i votanti scelgono la cura in base alla semplicità, l'economicità, la simpatia nei confronti di chi la propone o l'abilità del venditore nel convincere il prossimo. La scienza non è democratica per questo, conclude ciò che è oggettivo, non ciò che è per forza vero, ma ciò che è plausibile alla fine di tutti gli esperimenti.
La scienza (ed ancora la medicina) non è democratica perché non deve essere decisa da chi governa o da chi dirige un ministero, ma è decisa dai dati, da ciò che si può vedere, controllare, persino smentire. La scienza quindi è una sorta di dittatura ideale: decide non democraticamente ma nell'interesse esclusivo di tutti gli abitanti della Terra, nessuno scienziato fa una scoperta a suo uso e consumo ma ogni scoperta è a favore di tutti, a prescindere dalla loro condizione sociale, dal sesso o dalla provenienza, nessuna democrazia potrebbe essere così "giusta ed altruista" e no, uno scienziato corretto non ha nulla a che spartire con un ciarlatano. Un oncologo non ha nulla a che spartire con Di Bella, uno staminologo non ha nulla a che spartire con Vannoni. I primi fanno scienza, i secondi pseudoscienza. Se domani un geologo californiano si presentasse in televisione affermando che la forza di gravità non esiste, non è un simpatico burlone ma un banale raccontaballe. Può sempre dimostrare di avere ragione buttandosi dalla finestra, non lo farà mai perché sa che le sue idee sono semplicemente una trovata commerciale. Rike Geerd Hamer, "inventore" di una delle più crudeli e deliranti pseudomedicine, che spara a zero sull'oncologia e sulla chemioterapia, quando la malattia l'ha toccato, si è operato e si è sottoposto a chemioterapia salvandosi, esattamente ciò che dice di fare la medicina che lui descrive come "inefficace". Recitare la parte del paladino della verità, gli consentirà di avere sempre qualcuno che penserà di trovarsi davanti ad un genio incompreso, tessendone le lodi ed ammirandolo per la sua "coraggiosa ricerca" e farà passare in secondo piano il vero scopo del ciarlatano: i soldi.

Attenzione, la scienza non è perfetta, un medico o uno scienziato possono sbagliare come qualsiasi altro essere umano ma, mentre l’errore dell’esperto (quando in buonafede) è fortunatamente l’eccezione ed è spesso dovuto al caso, per il falso esperto succede l’esatto contrario, la regola è sbagliare, l’eccezione è avere ragione. Chissà se anche l’informazione nostrana si adeguerà a questa “norma”, mettere ognuno al proprio posto: chi cura a parlare di salute, chi vende pentole a venderle. Questa è una garanzia elementare, un diritto di tutti, una pretesa minima per chi desidera informazioni attendibili e cure oneste ed efficaci, cura chi sa farlo non chi dice di farlo.
Ognuno, naturalmente, è libero di curarsi con il venditore di pentole, ma che si dica chiaro che si sta vendendo una cura non provata e che nessuno se ne esca con la scusa “io ho solo raccontato una storia” perché in questo caso non fai lo scienziato e nemmeno il venditore di pentole, ma il romanziere.

Alla prossima.

giovedì 2 ottobre 2014

Quando l'omeopata va in pensione, l'omeopatia perde efficacia.

Resto sempre "un po'" perplesso quando sento di medici che praticano l'omeopatia o altre medicine alternative. Sarà sicuramente un mio limite, ma non posso credere che una persona che ha studiato per anni il funzionamento del corpo umano, la farmacologia, la fisiologia, l'anatomia, ha conosciuto la fisica e la chimica, ha imparato a comprendere termini come "recettore" o "enzima", da un giorno all'altro si lanci in ragionamenti fantascientifici quando non antiscientifici, parli di "memoria dell'acqua" e "simile cura il simile", di energie e vibrazioni, somigliando più ad un mago di altre epoche piuttosto oscure che ad un moderno ed aggiornato professionista (a proposito, ma nei corsi di aggiornamento per gli omeopati, di cosa parleranno?). Cerco anche di darmi delle spiegazioni: crisi d'identità, incompetenza o più semplicemente sete di denaro, ai tempi (ai miei tempi) dell'università si giustificava "malignamente" la scelta di un collega di occuparsi di omeopatia ma la risposta potrebbe essere più semplice: esiste una "fetta di mercato" da accontentare e quindi esiste l'offerta, un po' come giustificare l'esistenza degli oroscopi nel nostro secolo "ufficialmente" moderno e progredito. Non lo so, non sono giunto ad una conclusione certa, ma quando parlo con amici che praticano una delle tante medicine alternative (permesse dalla legge) noto sempre argomentazioni vaghe, quasi un desiderio di sfuggire al confronto, forse un senso di colpa. Una volta chiesi ad un collega omeopata, che ammetteva l'inconsistenza delle teorie omeopatiche, se non pensasse alla scelta poco etica del mentire al paziente sull'assurdità delle proprietà dei granuli di zucchero omeopatici, la sua risposta fu probabilmente la più sincera potesse darmi: "se rivelassimo ciò che somministriamo non avremmo nessun risultato".
Possibile, visto anche ciò che succede sempre più spesso nel mondo delle medicine alternative ed in questo caso dell'omeopatia.

Sono sempre di più, infatti, gli omeopati che dopo aver cessato la loro attività lavorativa hanno una sorta di "crisi" personale, sembra quasi uno sfogo dopo anni passati a difendere posizioni indifendibili (ma necessarie per...vivere). Anni fa era stato Edzard Ernst, docente di medicina complementare, oggi accanito demolitore di medicine non scientifiche, a "confessare" quanto fossero deboli le pretese dell'omeopatia, oggi è il turno di un "pezzo grosso" che anche gli omeopati più accaniti provano imbarazzo a smentire, Anthony Campbell, omeopata, agopunturista (che rifugge ogni aspetto "mistico" e tradizionale dell'agopuntura) medico oramai in pensione del Royal London Homeopathic Hospital, addirittura editor del British Homeopathic Journal (oggi Homeopathy, la rivista di omeopatia forse più nota al mondo). Campbell ha pubblicato un libro nel quale c'è più di uno sfogo nei confronti della pratica che lo ha visto protagonista per anni. Leggiamo qualche sua dichiarazione:
"it is wrong to say, as some critics do, that there is no objective evidence for homeopathy. There is, but most of it is of rather poor quality. Even at its best there is evidence for only a small effect, and when an effect is as small as this it may not be there at all. It is also disturbing that the better the quality of a trial the less likely it is to show a positive effect. I conclude that there are no firm answers to questions about the efficacy of homeopathy to be found in the research that has been done up to now".

Trad.: È sbagliato dire, come fanno alcuni critici, che non c'è nessuna prova oggettiva per l'omeopatia. C'è, ma quasi tutta di scarsa qualità. Nella migliore delle ipotesi, c'è prova solo di un piccolo effetto e quando un effetto è così piccolo potrebbe anche non esistere. È anche fastidioso notare come se gli studi sono di buona fattura vi è meno possibilità di notare un effetto positivo [dell'omeopatia].
Posso concludere che nelle ricerche fatte fino ad oggi, non esiste risposta certa sull'efficacia dell'omeopatia.

Campbell aggiunge:
Homeopathy has not been proved to work but neither has it been conclusively disproven – it is of course notoriously difficult to prove a negative. My own assessment of homeopathy is that, while it is impossible to say categorically that all the remedies are without objective effect, any effect there may be is small and unimportant. The great majority, at least, of the improvement that patients experience is due to non-specific causes.

Trad.: Non è mai stato provato che l'omeopatia possa funzionare ma non è stato provato nemmeno che non funzioni ma come si sa è notoriamente difficile provare un dato negativo. La mia opinione personale sull'omeopatia è che, se è impossibile dire con certezza che nessun rimedio sia efficace, qualsiasi effetto è piccolo e senza importanza. Almeno la grande maggioranza dei miglioramenti che riportano i pazienti, è dovuta a cause non direttamente collegate [all'omeopatia].
Per Campbell "l'omeopatia può essere considerata una forma di psicoterapia." che è quello che pensano in molti: quando non si hanno malattie da curare, ecco che la pallina magica di zucchero è il rimedio perfetto. Il problema è quando un medico propone l'omeopatia per curare malattie vere.

Devo dire che se gli omeopati ammettessero quello che ammette il loro collega sarei molto più "tenero" nei loro confronti, abbandonare tutto il rituale magico dell'omeopatia per ammetterne uno scopo "psicologico", un effetto placebo da sfruttare, un rimedio per tutte quelle persone che non riescono a fare a meno della "pillola" o che al minimo disturbo cercano il rimedio farmacologico (inutile e dannoso) potrebbe essere un terreno costruttivo di discussione. Se fossimo già arrivati su questo piano, perché siamo purtroppo ancora molto lontani da qualcosa del genere: gli omeopati (in generale) rigettano ogni considerazione logica e scientifica per lanciarsi in teorie paranormali che certo non fanno onore a chi ha una cultura scientifica e respingono con sdegno gli argomenti (scientifici) di chi mette in dubbio la loro fede ed in pratica negano secoli di conoscenze scientifiche per darsi ragione.
Ci si potrebbe quindi chiedere come mai un professionista che per 20 anni ha prescritto omeopatia, alla fine "ammetta" queste ovvietà: pentimento? Oppure non ha più bisogno di raccontare favole per vivere? Io credo semplicemente che a volte ci si stanchi di recitare una parte ed una crisi personale sia molto frequente. Ma quelle di Campbell non sono opinioni personali di un omeopata pentito, l'omeopatia è già implausibile teoricamente ed anche nella pratica non funziona più dello zucchero (infatti un granulo omeopatico oltre la 12CH altro non è che zucchero), lo ribadisce il NHMRC (Agenzia australiana per la salute e la ricerca), lo sottolinea il servizio sanitario nazionale inglese (l'omepatia non funziona in nessuna condizione clinica)...e lo fanno notare le vendite: il successo dell'omeopatia è sempre più messo in crisi dalla consapevolezza dei consumatori (il marketing delle aziende omeopatiche fa invece credere il contrario), si veda il drammatico calo delle prescrizioni di omeopatia nel Regno Unito, dove questa pratica è rimborsata dal servizio sanitario nazionale (contestualmente sono crollati i costi dei rimborsi del NHS ma le aziende omeopatiche hanno aumentato i prezzi dei loro prodotti per rifarsi delle perdite):

Il declino delle prescrizioni di omeopatia nel servizio sanitario inglese.

Il dato ricalca quello italiano, da noi in 8 anni (dal 2005 al 2013, qui dati 2016) l'uso dell'omeopatia si è praticamente dimezzato e riguarda una minoranza della popolazione italiana (quanta di questa minoranza usi solo omeopatia per curarsi ve lo lascio immaginare), questo conferma che la leggenda dell'uso diffusissimo di questa pratica è una semplice operazione di marketing ed il fatto che si continui a battere su questa bugia nelle pubblicità omeopatiche, dimostra per l'ennesima volta come neanche gli argomenti deboli degli omeopati abbiano una base reale e che tutto ruota su abili mosse pubblicitarie: d'altronde saper vendere zucchero come medicina, è un esempio perfetto di quanto sia manipolabile il consumatore con precise scelte di marketing e quando il consumatore è consapevole di cosa acquista a peso d'oro si ribella, come ha fatto diverse volte con class action nei confronti di grosse aziende omeopatiche.
La conseguenza della consapevolezza dei consumatori, oltre al calo delle prescrizioni omeopatiche, ha causato enormi perdite alle aziende (che possono dispiacere per i lavoratori, ma chi basa il suo business sulla magia deve prevedere che qualcuno scopra il trucco) e colossi come la Heel, si ritirano da mercati enormi come quello americano.

Una brutta botta per l'industria delle caramelle magiche ma che non può che rallegrare chi si chiede che ci faccia una pratica stregonesca sugli scaffali delle farmacie, prima o poi la ragione dovrà prevalere sulle superstizioni, sarebbe anche l'ora; oppure le aziende potrebbero finalmente decidere di finirla di ingannare i consumatori ed iniziare ad essere onesti, come ha annunciato la Helios, importante azienda di omeopatia inglese: visto l'aumentare delle regole e delle norme richieste per l'approvazione di un farmaco, se necessario, sono pronti a cambiare le etichette dei loro prodotti omeopatici, presentandoli come "non medicine", "non omeopatici" ma semplicemente come dolciumi, quello che sono.
Tutto questo non avrebbe bisogno di spiegazioni e ragionamenti contorti ma spesso serve ribadirlo, nel 2014 bisogna ancora spiegare che la magia è un'antica superstizione e probabilmente dice bene il prof. Garattini quando sostiene che il ragionamento scientifico e le basi della scienza, dovrebbero essere pilastro dell'insegnamento scolastico:
Occorre anzitutto non limitarsi ai contenuti della scienza, ma approfondirne i principi e la metodologia. I giovani studenti non hanno un’idea della complessità del più semplice organismo vivente mentre dovrebbero conoscere i meccanismi che sottintendono alle funzioni biologiche. Se sapessero le difficoltà nello stabilire i rapporti di causa ed effetto forse, a differenza degli attuali adulti non crederebbero agli indovini, all’omeopatia, agli oroscopi come pure alle terapie miracolose inclusa Stamina.
Questo è ancora più importante quando servizi pubblici, pagati da tutti noi, continuano a dare spago alla vecchia credenza dello zucchero curativo.
Per chi invece nonostante tutto vuole credere allo zucchero che cura non posso che consigliare un libro sull'omeopatia uscito recentemente negli Stati Uniti che tratta proprio l'argomento. Credo sia un testo unico, attendibilissimo: il suo autore prima di diventare omeopata era ricercatore presso un'industria di lavorazione dello zucchero, più che competente quindi.  ;)

Nel frattempo, in Australia, c'è chi chiede ai farmacisti di smettere finalmente di vendere omeopatia, secondo me anche per un farmacista è frustrante vendere dolciumi spacciandoli per medicine, ma si sa, con l'Australia siamo agli antipodi, ora provate a smentirmi.
;)

Alla prossima.

Articolo aggiornato dopo la stesura iniziale.